Da un po’ di tempo il nome del pianista cubano David Virelles compare sempre più spesso tra le pagine di Off Topic. Lo abbiamo incrociato, ad esempio, tra i membri dell’organico del batterista Jonathan Blake nei suoi ultimi due album, Passage (2023) e Homeward Bound (2021) – vedi rispettivamente qui e qui – e inoltre ha fatto parte anche della band di Andrew Cyrille in The News (2021) – vedi qui. Nonostante Virelles sia arrivato con il nuovo Carta al settimo album da titolare – escludendo l’e.p. Antenna del 2016 – credo che questa sia effettivamente la prima volta in cui Off Topic si occupi direttamente di questo musicista. Il quarantenne Virelles appartiene a quella ben lunga tradizione di pianisti cubani che hanno contribuito alla storia del jazz moderno tra cui ritroviamo Bebo e Chucho Valdes, Gonzalo Rubalcaba, Ramon Valle, Omar Sosa, Aruan Ortiz, Roberto Fonseca, Marialy Pacheco ecc. In cosa si differenziano i pianisti cubani da tutti gli altri? Non è certo una considerazione banale far riferimento alla padronanza delle eclettiche e variopinte componenti ritmiche, molto legate alle danze tradizionali, di cui Cuba è storicamente portatrice. Oltre al fatto che il pianoforte è considerato in primis uno strumento percussivo, i cubani sembrano possedere una fluida naturalezza nel creare armonie idonee al jazz e un’abilità tecnica e improvvisativa di prim’ordine, quasi fossero tutte queste caratteristiche derivative dal variegato e abitudinario rapporto con i ritmi frammentati delle loro danze. Forse è proprio per quest’ultima caratteristica che la loro musica possiede anche una venatura d’immediata sensualità, al netto di ogni semplice esotismo. Sfumatura peraltro presente anche in questo Carta – in spagnolo sta per “lettera” – che, almeno all’ascolto di gran parte dell’album, sembra quasi una rilettura in chiave contemporanea di tutta una specifica tradizione musicale centro-americana, rivisitata alla luce di componenti più moderne e piuttosto dissonanti legate al jazz ma anche influenzate, pur in misura minore, da un certo repertorio classico con cui Virelles ha avuto confidenza fin dall’età di sette anni.
La sua preparazione musicale, dopo una prima esperienza familiare – essendo figlio di musicisti – e una successiva fase di maturazione avvenuta a Toronto, si è affinata a New York con Henry Threadgill come maestro di composizione. In questa stessa città Virelles si è ritrovato a incidere dischi come sideman con artisti come Chris Potter, Tomasz Stanko e i già citati Jonathan Blake e Andrew Cyrille, oltre ad aver suonato anche con Mark Turner, Steve Coleman, Wadada Leo Smith, Bill Frisell, Paul Motian, Tom Harrell, Ravi Coltrane ed altri ancora. Virelles, in questo Carta, utilizza abbondantemente le percussioni che sono in qualche modo la vera ossatura dorsale delle sue composizioni. Non dobbiamo però immaginarci una musica latina aderente a dei modelli noti, tutta esuberanza ed atteggiamenti estrovertiti. Virelles non è certo un pianista convenzionale di musica latino-americana. Si rimane quindi lontani dai cliché più comuni e si prende nota dell’aspetto profondo di queste composizioni, con momenti spesso più oscuri e meditabondi, in aggiunta alla tecnica eccellente di Virelles che emerge in primo piano tra improvvise mareggiate ritmiche e solitari ripiegamenti sonori. Il pianismo dell’artista cubano risente anche di passaggi più contemporanei e di immersioni in momentanee correnti atonali ma il tutto si svolge sotto un vigile senso autocritico che non permette lo sconfinamento verso territori troppo verbosi. La formazione triadica di questo album, oltre al piano di Virelles, prevede Ben Street al contrabbasso ed Eric McPherson alla batteria e alle percussioni. Ciliegina sulla torta, la presenza di Maureen Sickler, l’ingegnere del suono ex assistente di Rudy Van Gelder all’interno dello storico studio del New Jersey, dove l’album in questione è stato realizzato.
Primo brano in esame è Uncommon Sense, magnifico esempio di quel pianismo jazz contemporaneo in perenne stato pencolante tra il dentro ed il fuori rispetto all’armonia tradizionale. Virelles non fa sconti all’ascoltatore, gli fa dono di una componente ritmica impeccabile e di facile presa condotta dai suoi partner, mentre al piano osa senza ritegno, dopo una brevissima e pensosa introduzione solitaria con una traccia di bassi che fa da guida alla futura sequenza del contrabbassista. Atmosfera tutt’altro che apertamente latina, come avevo accennato poco sopra. Improvvisazione e accenni tematici si sovrappongono con scale che s’inflazionano di note armonicamente estranee. Il ventaglio timbrico si apre e si chiude, spesso si ancora a una coppia di accordi reiterati, una momentanea boa di sostegno in un fluire di note che tuttavia non cancella la frontiera del silenzio, quella linea strategica segnata a dare il giusto respiro senza creare una sovrabbondanza soffocante di suono. Confidencial è l’unico brano non composto da Virelles ma è del per...